C’era una volta lo street food in Valtellina: pillole di storia di un rituale quotidiano già in uso agli inizi del Novecento
La collocazione geografica e la connotazione di una popolazione transumante, la mancanza di fenomeni immigratori notevoli ed un lungo perdurare di situazioni d’indigenza hanno costretto gli abitanti ad un consumo di prodotti poveri che, per certi versi, ancora oggi rappresentano un tratto distintivo della cucina tipica valtellinese. Erano agricoltori, erano legati alla Terra che resta la base della civiltà valtellinese. Ma una premessa è d’obbligo.
La provincia di Sondrio non comunica direttamente con la pianura padana, ma hanno il loro sbocco sul lago di Como, mezzo di transito nel passato ma anche barriera a facili rapporti. Le due valli hanno poi in comune il fatto di non avere il piano coltivato, vuoi perché paludoso, vuoi per il continuo mutare del corso dei fiumi e ancor più per l’esigenza di tenere a prato tutta la superficie per poter allevare il bestiame e nutrirlo d’inverno col fieno. Prati e pascoli consentivano l’allevamento ma non senza gravi difficoltà. Il poco fieno era appena sufficiente a nutrire le mucche nei tre o quattro mesi invernali, poi da febbraio cominciava una complicata transumanza verso altitudini sempre più elevate fino all’alpeggio, sopra i 2000 metri. Questa condizione di apparente “isolamento” ha sicuramente costretto gli abitanti della montagna ad organizzarsi in comunità e condividere quelle poche risorse che la terra concedeva, rappresentando, per certi versi, l’archetipo di quello che oggi chiamiamo “sharing” ed è un trend caro ai Millennials.
IL SENSO DEI VALTELLINESI PER LO “SHARING” NEL DOPOGUERRA: UNA QUESTIONE GEOGRAFICA
Tra i paesi posti per lo più alle pendici delle montagne fino alle residenze estive negli alpeggi comunali, le abitazioni erano spesso anche cinque o sei nell’ambito della stessa famiglia. Man mano che si saliva esse diventavano sempre più disadorne per struttura e “arredamento”. Ancora agli inizi del secolo, la maggior parte delle case principali non aveva un tavolo (motivo per cui le maestre non potevano dare compiti scritti a casa agli alunni), figuriamoci nelle baite, dove spesso c’era solo il focolare. Si pensi che i pizzoccheri, tra i piatti principi valtellinesi, non erano ancora praticati dalla maggior parte della popolazione, perché sprovvista di una spianatoia su cui stenderli.
L’alimentazione principale era composta da prodotti del bosco, erbe, cereali, a cui aggiungere farina di frumento e riso comprati alla bottega del paese, poche verdure e una grande varietà di latticini e insaccati. Proprio questa alimentazione frugale comportava più pasti o spuntini nell’arco della giornata, da consumare prevalentemente durante le attività quotidiane, il pascolo e il lavoro sui campi. La carne fresca era quasi inesistente, riservata per lo più alle grandissime occasioni, se escludiamo l’evenienza di una mucca o un vitello che cadeva in montagna e che doveva essere consumato prima che la carne si alterasse. Da qui la necessità della conservazione degli alimenti, necessaria e antica abitudine degli abitanti della montagna. La bresaola è il modello di sopravvivenza (la carne salata ed essiccata) che si perde forse più di altri negli albori della storia dell’umanizzazione. Ogni comunità per quanto piccola, aveva il macellaio che aiutava nelle operazioni della lavorazione delle carni. E si pensi più semplicemente alla panificazione, che spesso avveniva due volte al mese. Ogni villaggio aveva a disposizione pochi forni da usare, la condivisione a turno era una condizione necessaria. Per meglio utilizzare il calore del forno, spesso due o più famiglie facevano il pane contemporaneamente e gli impasti dovevano rimanere separati. E ognuno lasciava la pasta per il lievito del vicino. A volte, una vedova si incaricava di fare il pane per altri in cambio di una pagnotta. La forma sottile a ciambelle era quella più facile da conservare, infilata nei bastoni di legno appesi al soffitto perché seccassero in modo appropriato e si salvassero dal rosicchiamento di ospiti indesiderati.
Le differenze stagionali così marcate costringevano inoltre la popolazione a conservare anche i cibi molto poveri per i periodi inclementi: le foglie delle rape bianche venivano essiccate all’ombra nei solai e poi consumate in inverno. Analogo procedimento si effettuava con la malva che veniva mangiata d’inverno in minestra e si usava anche perle mucche malate. E ancora, i cavoli venivano conservati sottoforma di crauti, le mele si conservavano per quasi tutto l’inverno su tavole di legno e si facevano seccare, così come le pere e i funghi. Durante l’inverno, poi, la mancanza di pascolo dovuta al gelo e il costo eccessivo del fieno inducevano alcuni proprietari di bestiame a darlo in prestito a chi possedeva prati ed era in grado di produrre fieno. Per un mese o più, queste famiglie producevano burro e formaggio per i mesi successivi.
RITI E USANZE PAGANE ALLA BASE DELLA CONVIVIALITÀ AGLI ALBORI DELLA SOCIETÀ VALTELLINESE
La convivialità ha un ruolo importante all’interno della comunità valtellinese. Val la pena ricordare una vecchia tradizione, quella del poscéna, una festa tra vicini di casa che avveniva nel dopocena. Ogni partecipante portava un contributo: burro, farina da polenta, formaggio, bresaola e l’ultimo spuntino della giornata diventava una festa accompagnata da organetto e canti. Per non parlare dell’usanza di riunirsi nei crotti. Di crotti e bresaola si parla già in un articolo sul Corriere della Sera risalente al 1944 a firma di Leonardo Borgese: “La stagione bella per le crottate è quella estiva. Verso le sette, la sera, da ogni via di Chiavenna si vedono uscire gruppetti di persone che s’incamminano in tutte le direzioni verso i crotti, con fagottini fazzoletti e sporte. Dopo pochi minuti, che si è arrivati alla meta fra il verde, l’ombra, il vino, la brisavola, ogni stanchezza, malumore, malinconia svaporano”. E ancora, anche in Valtellina l’evento funebre scatenava quasi e reazione vitalistica la voglia di cibo. La “marenda del mortori” era nella tradizione la cena dei familiari quando il defunto, ancora in casa, stava attraversando il ponte verso l’aldilà.
Documentazione fornita da Francesca Bormetti, storica dell’arte e Segretaria della Società Storica Valtellinese
Fonti:
“Cucina di valle e di montagna” di Nella Credaro Porta estratto da “Sondrio e il suo territorio” (Silvana Editoriale)
“La Bresaola della Valtellina” – Accademia Italiana della Cucina settembre 1997
“Tavola imbandita in Valtellina” di Renato Sozzani
“Note di storia e civiltà alimentare valtellinese e valchiavennasca” di Franco Monteforte
Questa azione è stata realizzata con il cofinanziamento del Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale (FEASR) -PROGRAMMA DI SVILUPPO RURALE 2014-2020 DELLA LOMBARDIA -GRUPPO DI AZIONE LOCALE VALTELLINA: VALLE DEI SAPORI 2014-2020 SCARL.